Grazie del riso, nonna!

Grazie del riso, nonna!

Entriamo in cucina e saliamo sulla macchina del tempo. Un viaggio nelle papille gustative del cuore. Insieme al Riso Roma.

Ogni volta che apro lo sportello della cucina e prendo il pacco rosso del riso Roma, penso a mia nonna.

Era alta poco più del pacco di riso stesso, e non camminava: correva.
D’altra parte, se in tempo di guerra hai 3 figli, un marito un po’ partigiano un po’ imbianchino e siete sfollati in un paesino delle Langhe dove un giorno sì e uno forse passano i rastrellamenti fascisti e tedeschi, non riesci a stare con le mani in mano.
E lei si dava da fare, eccome.
Io me la ricordo sempre a fare qualcosa. Il più delle volte a cucinare. Sempre con quel pacco rosso di riso che di volta in volta serviva a fare la minestra, il risotto, il riso in brodo, le polpette di riso.

Ogni volta era un gusto incredibilmente diverso, roba che per arrivare a quei risultati gli chef televisivi di oggi dovrebbero svaligiare Eataly ma soprattutto fare un corso di modestia.

E la tv ai suoi tempi non c’era mica granché.

Solo la sera, solo due canali, solo pochi minuti dal momento in cui la accendevi al momento in cui si cominciava a vedere qualcosa.

Quando andavo a trovarli d’estate per passare le vacanze da loro, per me si faceva un’eccezione: non “a letto dopo Carosello” ma si guardava il film, quasi sempre western, a volte spionaggio o commedia brillante dei tempi d’oro di Hollywood. Così per me John Wayne, Clark Gable, Deanne Durbin, Cary Grant, Spencer Tracy, Gary Cooper, Doris Day, Gregory Peck, Grace Kelly, James Stewart, Kirk Douglas erano come gli amici di famiglia dei nonni, gli ideali vicini di casa che alla sera dopo cena venivano a trovarci.

Ma torniamo a parlare di cibo, anche perché alla mia concretissima nonna non piaceva divagare.

Prima di chiamarsi Roma, il riso che lei amava tanto si chiamava Razza 77, che sembrava il nome di un concorso canino o una sperimentazione genetica ante litteram. Erano i tempi in cui il marketing bisognava ancora inventarlo, e quando si davano i nomi ai prodotti alimentari non si andava per il sottile.
Ma cosa ha di speciale questo riso Roma da aver conquistato tutte le nonne, e di conseguenza tutti i loro figli e nipoti?
È un riso universale. In qualsiasi ricetta lo usi, viene sempre bene, e questo ai tempi delle nostre nonne era un pregio mica da poco. Primo, perché non si doveva sprecare niente. Secondo, perché allora non c’era la cultura gastronomica di oggi, a cena nessuno dissertava sulle varietà di riso, di cultivar, di vitigni, di mono-origine, ecc.

E soprattutto quando si faceva la spesa, non ci si poteva permettere di comprare più varietà di riso, ma un pacco per volta. Non era solo per questioni economiche, ma anche per motivi pratici: gli uomini erano al lavoro, le donne a casa, e senza automobile. I supermercati non c’erano, e il riso si comprava in drogheria o dal panettiere, andandoci a piedi per la spesa quotidiana. Morale della favola: si comprava volta per volta un pacco di riso che serviva per rimpiazzare quello appena finito.
Per molti consumatori piemontesi, il Buon Riso è il Riso Roma, e basta. Quando si accorgono che produce altri tipi di riso, confezionati in pachi di colore diverso, rimangono stupiti, e non lo cambierebbero mai il loro amato Riso Roma, un po’ come la signora con il fustone di Dash della réclame dei loro tempi, quella con il compitissimo Paolo Ferrari.

E oggi, in tempi di MasterChef, dove non sei nessuno se non sai cucinare la “zampa di anatra farcita con mousse di kumquat su petali di orchidea nana di Kuala Lumpur,” per essere davvero trasgressivi e originali forse basta tornare alle origini.

Prendere dalla dispensa il pacco rosso del Riso Roma e cucinarlo proprio come faceva la nonna.
Sarà bellissimo vedere gli amici rapiti da sapori talmente radicati nella memoria da risultare sorprendentemente nuovi.
Buon appetito, e grazie nonna!