Il cuore torna a casa

Il cuore torna a casa

La pre-inaugurazione del Filadelfia, l’incontro con i propri eroi granata:
la commozione di essere in un posto speciale e di sentire che ti appartiene.

Avevo 8 anni, l’età che ha mia figlia adesso.
Mio papà mi prese sulle spalle perché la salita era dura.
Così arrivai un po’ più vicino al cielo di Superga.
Era il 16 maggio 1976. Il Torino aveva vinto il suo primo scudetto dopo il Grande Torino, e tutta la Torino granata saliva a Superga a piedi per donare la sua felicità a capitan Valentino e alla sua squadra leggendaria.
Ecco, pensavo a questo mentre entravo ieri al Filadelfia. Come quando torni a casa e senti il profumo dell’infanzia.

Ci sono persone che sono entrate nel nostro cuore e non ne sono mai più uscite. Entrando al Filadelfia le ritrovo tutte: alcune le vedo, tutte le altre le penso.

Quando ritorni a casa ti commuovi sempre.
Trovi le cose che parlano di te, che sono nascoste sotto la polvere e gli anni, ma che sono ben vive nel cuore.
Trovi magari i fumetti di quand’eri bambino, i tuoi eroi, Tex, Zagor, Sandokan, Zorro, e ti ritrovi in una macchina del tempo, come se ti spalmassero una crema antiaging sull’anima.
Entro nel Filadelfia ricostruito e trovo i miei eroi. Quelli che ho visto giocare da bambino: Pulici, Claudio Sala, Castellini, Pecci, Zaccarelli, Dossena. Hanno lo stesso sguardo che ho io, si guardano intorno fra l’incredulo e il sognante. Sono tornati a casa anche loro, che come tutti i granata non pensavano più di avere una casa.
Una casa.

È più di un prato, più di un campo, più di uno stadio.
Qui gioca ancora e giocherà sempre il Grande Torino.

Qui vivono ancora e vivranno sempre ricordi, lacrime, abbracci.
Qui c’è ancora capitan Valentino che nei momenti di difficoltà si tira su le maniche e porta la squadra a vincere, nel gesto più simbolico che esista per una nazione che si sta rialzando dopo la guerra.
Qui c’è ancora Meroni che arriva vestito come un’icona pop prima di pennellare poesia sul campo.
Qui c’è ancora Ferrini che nelle partitelle si mette a marcare e menare i nuovi arrivati, e solo quando cominciano a rendergliele allora gi dice “ok, sei da Toro”.
Qui c’è ancora Gigi Radice, il sergente di ferro che crea lo scudetto-miracolo del 1976.
Qui Claudio Sala fa le sue finte e i suoi dribbling impossibili.
Qui Pulici si allena a tirare sempre più forte e preciso contro il muro per poi vincere tre titoli di capocannoniere.

Qui ci sono tutti i “ragazzi del Fila” che hanno giocato nelle giovanili del Toro: alcuni sono stati dei campioni, ma anche quelli che non sono diventati famosi hanno avuto la fortuna e l’emozione unica al mondo di allenarsi nello stesso campo, di vestirsi negli stessi spogliatoi della squadra più leggendaria della storia del calcio.

Qui ci sono i cuori granata di Torino, d’Italia e del mondo.

Nella porta a sinistra della tribuna, Aldo Ballarin segnò l’ultimo gol del Grande Torino, il 17 aprile 1949. Torino-Modena 3-1. Era il giorno di Pasqua, il giorno della Resurrezione.
La resurrezione del Filadelfia è oggi.

24 maggio 2017.
La giornata di pre-inaugurazione riservata a donatori, sponsor e agli ex giocatori.

Ci sono 1500 persone, 3000 occhi e neanche uno rimane asciutto quando Jimmy Ghione recita la formazione del Grande Torino: Bacigalupo Ballarin Maroso Grezar Rigamonti Castigliano Menti Loik Gabetto Mazzola Ossola.

Molti l’hanno definita una preghiera; per me è una formula magica, che ridà forza a chi la declama, a chi la ascolta, a chi la sussurra tra sé, o la dice ai propri figli, proprio come l’ha sentita dal padre e dal nonno.
Le leggende si tramandano. Entri qui e ti accorgi che stai vivendo la leggenda. Una leggenda che ti hanno raccontato da bambino. E incontri gli eroi di quella leggenda, i tuoi eroi. Luciano Castellini, il portierone dello scudetto del ’76, il mitico Giaguaro.
L’avevo incontrato da bambino proprio qui al Filadelfia. Mi ricordo come fosse oggi.

Ho sette anni. Castellini esce dall’allenamento, mi vede con il pallone in mano e mi dice “Dai, fammi gol” e si mette davanti al portone di un garage in via Filadelfia, come se fosse la porta.

Io tiro, lui fa finta di arrivarci ma non la prende. La palla sbatte sul portone di ferro con un suono che ho ancora nelle orecchie. Lui mi urla “Bravissimo” come urla “Mia” ai suoi difensori durante le uscite plastiche in area e mi dà una carezza ruvida come se avesse i guantoni che usa in campo alla domenica.

Poi arriva Pulici. Se tifare Toro è una fede, lui è il Dio di questa fede, e farsi un selfie con Dio non capita tutti i giorni.

Così sbaglio l’inquadratura, per l’emozione lo taglio mezzo fuori dallo schermo, come se l’avessi spinto via a spallate. Quello che non riuscivano a fare i difensori più rocciosi degli anni ’70 riesco a fare io con un telefonino.

Un altro eroe del romanzo chiamato Toro è Emiliano Mondonico. Lo incontro sotto uno dei pennoni dedicati alle Leggende Granata sul Viale della Memoria che fa da accesso allo stadio.
Sono al Filadelfia per seguire Il Buon Riso, sponsor proprio di questo pennone sotto cui mister Mondonico si sta riparando dal sole.

Il pennone è dedicato a Gigi Meroni e Giorgio Ferrini. La fantasia e la grinta, la Farfalla Granata e il Capitano ringhioso, l’ala guizzante e geniale e il mediano arcigno e lottatore. Due giocatori apparentemente all’opposto, uniti dalla storia granata e da un destino crudele, che li ha portati via quando uno stava per consacrarsi come uno dei talenti più puri del calcio italiano e l’altro quando, dopo una vita passata in maglia granata, era appena uscito dal campo e si era seduto in panchina a fare da vice a Gigi Radice nella stagione dello scudetto.

Mondonico non guarda in alto a leggere i nomi dei suoi due sfortunati compagni. Lui che giocò con Ferrini, prese il ruolo e la maglia di Meroni, alzò epicamente la sedia ad Amsterdam, oggi ha sempre il suo humour garbato e pacato e fra una battuta e l’altra emerge la sacrosanta verità: “altro che una sedia, ogni tifoso granata dovrebbe alzare un mobilificio intero”.

Ma non c’è spazio per recriminare, oggi. Perché oggi si torna a casa. E quando si torna a casa si è felici. Le lacrime sono solo di gioia. Una volta tanto.

Mauro Marinoni

 

ritratto-1Torinese e granata da generazioni. Volevo fare il pianista ma mi sono rotto un dito, volevo fare il calciatore ma ero troppo pigro per allenarmi, così mi sono messo a scrivere: sto alla tastiera e non devo correre. Scrivo per chi fa cose buone e ha belle storie da raccontare, anche se non lo sa ancora. Vado d’accordo con chi riconosce le cose belle quando ne legge una.